Al Festival di Spoleto una lettura di «1984» fedele al testo, con un'intensa e toccante interpretazione di Pierre Adeli.
Il romanzo distopico di Orwell 1984 profetizza, com'è noto, l'avvento di una società in cui il controllo degli individui è scandito da una norma che non ammette eccezioni, e dove ogni forma di libertà – in primo luogo quella del pensiero – è una mera illusione di libertà, essendo duramente e inflessibilmente estirpato ogni germe di aspirazione a modelli diversi da quelli prescritti.
La vicenda di Winston Smith, uomo comune che assurge suo malgrado al ruolo di eroe per una resistenza non programmata all'obbedienza, è la lunga, angosciante sottomissione di una mente disallineata, destinata ab origine alla sconfitta. La scrittura di Orwell è magistrale, capace di tenere assieme l'impersonale onnipotenza del romanziere e la limpidezza cartesiana del giornalista. La narrazione di un futuro apocalittico sollecita le paure inconsce del lettore lasciando che una parte del buio attinga dalle sue zone oscure e dalla sua esperienza individuale.
Ora, la messa in scena di un romanzo pone sempre il regista dinanzi a una scelta radicale; perché la compiutezza di un testo letterario non richiederebbe di per sé di una rappresentazione scenica, nella quale all'inevitabile perdita di elementi testuali non corrisponde in maniera automatica un guadagno di senso. Detto in altri termini, al regista si pongono grosso modo due opzioni di massima: o scardinare il testo, tradirlo, modificarne l'equilibrio costituente per osare nuove significazioni generate dal fatto scenico; oppure mantenere una dichiarata fedeltà alla sacralità del testo, consapevole tuttavia del fatto che la proiezione meccanica del romanzo sulla scena si tradurrà prevedibilmente in una pura riduzione.
In questo caso un ulteriore elemento grava sulla scelta: la profezia orwelliana rappresenta uno scenario largamente diffuso nella cultura contemporanea anche a chi non abbia mai letto una pagina del romanzo: espressioni come “grande fratello”, “psicopolizia” e lo stesso aggettivo “orwelliano” appartengono al linguaggio comune al di là della fama del romanzo stesso.
In questo 1984 rappresentato al Festival dei 2 mondi di Spoleto con la compagnia The actor's gang, Tim Robbins sembra aver optato più schiettamente per la seconda alternativa, riconoscendo al testo di Orwell una certa inviolabilità. La drammaturgia di Michael Gene Sullivan rielabora i capitoli finali del romanzo, concentrandosi sull'interrogatorio e la rieducazione di Winston, ottimamente interpretato da Pierre Adeli, e sul suo progressivo cedimento alle ragioni governative. Circondato da quattro interlocutori/giudici, incalzato da una voce fuori campo, Winston vede logorarsi poco alla volta le sue consapevolezze sotto la pressione crescente del dolore e della paura, mentre le parole scivolose della neolingua imprimono ai suoi occhi subdole torsioni alla realtà, rinnovando a capriccio la verità corrente.
La nuda dinamica della scena è interrotta a tratti dai videogiornali governativi, proiettati ai confini della scena su due maxischermi. Il regista attualizza l'impatto emotivo con immagini tratte dall'attualità della cronaca televisiva, rafforzando l'interferenza fra l'universo orwelliano e l'ambiguo presente. Una scelta che, accostata alla potente interpretazione di tutti gli attori, suscita una certa tensione nel pubblico: all'uscita qualche spettatore ha davvero gli occhi lucidi per la drammatica resa di Smith. Il lungo applauso e la chiara restituzione emotiva testimoniano che questo lavoro senz'altro funziona; anche se sembra chiaro che una parte di quell'applauso va attribuita all'immortale invenzione di Orwell.